13 gennaio 2014

THE REAL MAGNIFICENT BASTARDS





"The Real Magnificent Bastards.
Erano unici. Ineguagliabili. Eccezionalmente creativi. E strani."
Così inizia il racconto di Steffan Chirazi nel libretto di "Who Cares a lot? The Greatest Hits". Cinque pagine sentite, sincere, scritte dal giornalista che è riuscito maggiormente a catturare lo spirito di una carriera epica.
Ero ancora un liceale quando comprai questa doppia raccolta e non li conoscevo bene. Non ci misi molto ad innamorarmene e oggi non saprei trovare parole migliori di quelle di Chirazi.

                                 WHO CARES A LOT? - FAITH NO MORE

Quella volta ero nella vecchia Mongolfiera, scalcagnato centro commeriale di Taranto. Mi aggiravo tra gli scaffali con circospezione, quando l'occhio mi cadde su un cd incellofanato malaccio: "Noooo, l'ultima doppia raccolta dei Faith No More a 15mila lire..." Mi guardai in giro, quasi non ci credevo. Lo presi e andai via, prima che mi dicessero fosse uno scherzo.

Il cd si apriva proprio con "Who cares a lot?" e bastarono pochi minuti per comprendere che avevo in mano qualcosa di diverso, di gustosissimo. Mischiava come se nulla fosse rock, rap, furia metal e gusto per la melodia in un'unica marea di suoni e sensazioni. 
"Introduce yourself" è molto più particolare, ammetto che mentre la prima traccia mi prese subito bene, questa mi lasciò stranito. Come la definirei? Un cucciolo di pitbull a cui avete fatto bere due redbull, e poi una birra.
Questi due pezzi sono tratti dal loro primo album, dopo cui Chuck Mosley mollò la band e lasciò il posto a Mike Patton alla voce. E lì la storia cambiò: la Fiat Punto si trasformò in una Lamborghini venuta male, con le portiere di un colore e il cofano di un altro: eppure aveva una marcia in più, quel Mike Patton, uno dei migliori performer di sempre.
"From out of nowhere" corre subito a pieni giri. Si molla momentaneamente il rap e si incanala in un hard rock più consueto, aggettivo che riferito ai FNM non significa nulla. Bella, bellissima! Combina melodia e rabbia venata di funk in un unico liberatorio sputo. E poi arriva "Epic": la luce si spegne e si riaccende ancor più intensa, accecandoti. Un rap metal funkeggiante trainato da un Mike Bordin imperioso alla batteria, e che si apre in un inciso melodico e molto lontano dall'essere smielato. Non si era mai sentito nulla del genere in giro, fu una mezza rivoluzione che sancì il loro successo di massa. Pezzo che suona ancora oggi attualissimo: l'assolo di Martin e la tastieristica chiusa finale di Roddy Bottum, elegantissima, valgono da soli il prezzo del biglietto.

A seguire arriva "Falling to pieces" e a stupire è proprio la chimica che regna nella band. Tutto è al suo posto e suona come vorresti suonasse se fossi tu a decidere. L'asticella si alza ancora di più con "Midlife crisis", una delle mie canzoni preferite. Patton gigioneggia, iniziando con un cantato basso, burbero, e quando dopo 40secondi pensi si sia aperto nel ritornello, ti accorgi che non c'hai capito nulla. C'è prima un bridge che porta al vero refrain, spettacolare. Prendono il formato classico della canzone e lo destrutturano a loro piacimento, divertendosi e divertendoci, come testimonia anche il ritornello col doppio cantato a 3.05. Fu il singolo dell'album; molti si aspettavano una "Epic 2.0" e loro piazzarono questa: tanta roba, porca miseria.
"A small victory" continua a correre sugli stessi spettacolari binari, con un Gould in gran spolvero. E' indubbio che con pezzi presi da "The Real Thing" e "Angel Dust", come caschi caschi bene. I due migliori album della band sono un concentrato di dinamite dalla miccia già accesa.
Sembra sempre ti stiano portando in una certa oscura direzione prendendoti per mano, ti giri e non ci sono più. E senti le loro lontane risate perchè te l'hanno fatta un'altra volta. Infatti arriva "Easy" e ti parte un "Ehhhh?", perchè non c'entrerebbe nulla e invece ti metti a cantarla. Fedelissima all'originale dei Commodores di Lionel Ritchie, riesce comunque ad essere migliore, e quando migliori un classico non puoi che prenderti gli applausi. Non a caso portò l'album a vendere tre milioni di copie.
Con la ruvida "Digging the grave" arriva una sferzata di hard rock che limona col punk. I bimbiminchia italici di fine anni '90 la scoprirono grazie a "Jack Frusciante è uscito dal gruppo", filmettino che fece conoscere al pubblico Stefano Accorsi. Non si è mai capito cosa c'entrasse Frusciante con quella storiella adolescenziale. La colonna sonora però conteneva FNM, Marlene Kuntz, C.S.I. e non solo...Niente male!
Il rap riappare qui e là su sonorità grunge, come anche in "The gentle art of making enemies", che continua a miscelare ingredienti in modo certosino, senza mai sbagliare di un grammo. Sorprende la loro capacità di tenere per le palle la melodia, questo nonostante i suoni siano sporchi e cattivi. Qui poi c'è un Mike Patton da grandi occasioni e scatenato sul finale. Altra cosa che sorprende è il suo essere camaleontico e passare dalla rabbia iconoclasta all'eleganza da crooner di "Evidence", una canzone che è uno smoking da indossare da qui a infinito. Bottum continua a regalarmi brividi alla tastiera, ma è tutto l'insieme a brillare di mille colori come un opale.

"I started a joke" all'inizio non la capivo, skippandola a oltranza: povero imbecille... Cercate di comprendermi, in una centrifuga di suoni e immagini così contrastanti era difficile riuscire a focalizzare ogni dettaglio: ora è una delle mie tracce preferite! Cover dei Bee Gees, è un'altro regalo che non ti aspetti e che fa il paio con "Evidence". Che vuoi dire di Mike Patton che non è già stato detto? Non gli serve mica gridare di essere uno dei migliori, ti sputa schifato sui piedi e se ne va, tanto basta sentirlo e ha ragione, avrà sempre ragione.
La dodicesima del cd è "Last cup of sorrow" e la lunga mano dei produttori si sente tutta. Il suono sembra più educato e forse un pelo edulcorato. Non più brutto, forse meno incisivo come potenza dell'insieme. Probabilmente più sporco - come agli inizi - avrebbe funzionato meglio.
Meglio va con "Ashes to ashes" mentre "Stripsearch" funziona ma non aggiunge nulla alla storia. Il rap è ormai finito in cantina e la band scricchiola pericolosamente. Questi ultimi tre pezzi sono infatti il canto del cigno (quello della copertina di "Angel Dust"), che si congeda proprio con "Album of the year".

Il secondo cd è una collection di outtakes, rarità, live e demo. Stupisce "The world is yours", dalle atmosfere ideali per essere la colonna sonora di un film di guerra (o del tarantiniano "Ingloriuos Bastards" per rimanere in tema): strano sia stata accantonata. "Hippie Jam song" profuma di Red Hot e Audioslave e non sfigura. Dopo un intermezzo strumentale, arriva "I won't forget you", curiosamente molto "ultimi Red Hot Chili Peppers" nella strofa (in anticipo di cinque anni almeno), prima di incattivirsi in un ritornello acidissimo. C'è anche la versione demo a quattro tracce di "Introduce yourself" e l'ultimo regalo è rappresentato da tre cover live - "Highway star" (serve dire di chi?), "Theme from Midnight Cowboy" di John Barry (Patton che rifà la colonna sonora di "Un uomo da marciapiede", che perla) e "This guy's in love with you", gioiellino di Burt Bacharach - ed è superfluo dire che è come chiudere un libro splendido con una delle pagine migliori.

Bordin con i suoi beat tribali, Gould e Bottum che spingevano su ritmiche punk, Martin che sentiva dentro il rock degli Zeppelin e dei Pink Floyd e Patton che era l'unico con la mente che ruotava sui 360° musicali: avevano creato un mosaico perfetto, ognuno con le sue sfumature, ognuno con i propri spigoli. Alla fine però non riuscivano più a interfacciarsi, a parlare come amici, e implosero. Si sono ritrovati nel 2009 per una serie di concerti, ma il sogno di nuovi inediti è già sfumato. Non hanno voluto cedere alla tentazione dei soldi e della nostalgia, avrebbero rischiato di rovinare il proprio passato. Altra pasta.

Sono venuti i Korn, i Limp Bizkit, i Linkin Park, i Papa Roach e tutta una generazione di band nu metal, e nessuna aveva quel tiro, nessuna. Ottime band, ma loro erano un'altra cosa. In rete ho letto commenti imbarazzanti (che non sono stati importanti come si pensa e bla bla bla), tutte chiacchiere di chi non li conosce per niente. Hanno inventato il crossover ancor prima dei Red Hot Chili Peppers, aprendo la strada a tutti, fregandosene, con il coraggio di chi non ha nulla da perdere ma anche nulla da guadagnare. E chi non ha nulla da chiedere al futuro è invulnerabile. Infatti nella guerra coi decenni hanno vinto loro.
Due mesi fa mi aggiravo tra gli scaffali della Ricordi a Milano: "Noooo, i primi tre album dei Faith No More in un unico digipack a soli 12euro...". Mi sono guardato in giro, quasi non ci credevo. L'ho preso e sono andato via, prima che mi dicessero fosse uno scherzo.

2 commenti:

Blackswan ha detto...

Li adoro! i primi quattro dischi sono imperdibili !

Antonello Vanzelli ha detto...

Soli 12euro per una confezione con i primi tre album è un furto a mano armata. Band enorme!