15 ottobre 2013

QUELLI CHE AVREBBERO MERITATO DI PIU'




Ho ricordi in chiaroscuro del liceo, ombre allungate da un sole freddo. Ero svogliato - quello si - ma dipendeva dallo scarso feeling con me stesso e con chi mi circondava.
Non ero bello, anzi, il classico nerd occhialuto che in genere è l'ideale per il ruolo del secchione. Quando mai: non che fossi il Bruno Sacchi della classe, quello che collezionava 2, intendiamoci, ma mi barcamenavo tra sufficienze approssimative, oltre che tra amicizie prive di spessore.
Non trovavo sostegno neppure nei professori. Ho sempre pensato che il mestiere dell'insegnante sia complicato, ma che sia anche più complicato non finire per diventare dei grandissimi figli di mamma che batte. E' troppo facile stimare il primo della classe, il prof cazzuto invece è con i deboli che trova soddisfazione, aiutandoli a crescere. Peraltro la mia classe era piena di figli di papà e con loro era ancor più facile scivolare verso la deriva personale ed intellettuale.
Vedevo docenti chiudere un occhio in nome del rapporto che li legava al genitore di Gualberto Mangiabudella o di Giuseppina Canistracci mentre io, anche quando studiavo sul serio, mi dovevo accontentare di 6 stropicciati.
Si sa però che, come dice il saggio, "E tira e tira e tira il filo si spezza. E riempi riempi riempi e la bocca strabocca. E ci dai un dito e si prende l'inguine!" e così fu.

                                                  LUIGI TENCO E GLI ALTRI

In disegno me la cavavo piuttosto bene, il professore ci assegnava come compito dei chiaroscuri a scelta e io mi facevo il mazzo, anche perchè ho sempre trovato stimolante disegnare. Ero una fava nel ritratto ma sapevo ricopiare tutto alla perfezione. Detto questo, non si sa perchè ma ogni volta che consegnavo la mia opera: "Vanzè, questo non lo hai fatto tu!".
Non una parola invece a quei tre o quattro che se lo facevano fare dai genitori, tutti abilissimi nel disegno grazie alla scuola d'arte frequentata da giovani. All'ennesima, non ci vidi più mandandolo a fanculo davanti alla classe e sbattendogli la porta in faccia.
La volta dopo glieli disegnai tutto durante le ore di lezione, sotto i suoi occhi, al primo banco. Dovette mettermi 8 e mezzo, quindi, oltre al vaffanculo, si prese anche la smerdata pubblica, masticando amarissimo. Godo ancora adesso.

In Italia sono parecchi i gruppi trascurati dai professoroni della critica e del pubblico e che avrebbero meritato miglior sorte. Il primo che mi viene in mente è sicuramente Filippo Malatesta. Ce lo ricordiamo in pochi probabilmente, ma noi pochi lo manteniamo nel cuore, poco ma sicuro. Negli anni '90, appuntamento fisso per i musicofili era "Roxy Bar", programma di Red Ronnie (appena risorto, grande cosa!) in cui si faceva musica dal vivo e si parlava di tutto, da Jimi Hendrix alle chiacchiere da bar.
Chi ha varcato i trent'anni non può essersi dimenticato di Malatesta, presenza fissa nel programma: suonava ogni giorno pezzi suoi e cover famose.
In quegli anni, si affacciò alla grande sulla scena, grazie a singoli come "La figlia del re" e "Non voglio sentire niente", che ebbero un potente battage radiofonico e su Videomusic.
Il terzo album sarebbe dovuto essere quello della consacrazione: prodotto da Corrado Rustici - uno dei deus ex-machina della discografia italica - fu lanciato in pompa magna con "Alla grande". Un buon singolo ma non colpì le masse più di tanto e lo stesso accadde con "Domani", uno dei suoi lenti migliori e uno dei miei preferiti in assoluto. Non so perchè un album come "Il re delle tre" ebbe una risposta così tiepida e non so neppure se fu il mondo musicale a farlo fuori o se fu lui a mettersi da parte. Da quel momento Malatesta si eclissò. Passarono ben sette anni prima di poter riascoltare un suo album, il piacevole "Giramondo", che ad oggi rimane l'ultima sua fatica di studio.
Credo che ormai ci abbia messo una pietra sopra, manda avanti il suo locale dalle parti di Rimini, esibendosi con regolarità per i suoi fan. Prima o poi ci andrò, mi ha regalato così tante emozioni che me ne frego se non ha sfondato: voglio stringergli la mano e dirgli grazie.

Dev'essere frustrante arrivare ad un metro dal traguardo e venire beffati ritrovandosi alla partenza. E' quello che purtroppo è accaduto ai Luciferme, gruppo rock new wave famoso sul finire dei '90.
La loro partecipazione a Sanremo Giovani con "Il soffio", grande canzone che bissò "Ad occhi chiusi", se la ricordano in parecchi: fu una boccata d'aria fresca nel bailamme sanremese fatto di caramelle pop tutte uguali.
La fine del millennio fu il loro momento di grazia, e come vendite e come numero di concerti, e arrivarono persino ad aprire l'unico concerto italiano di Brian May, una bella soddisfazione. Da lì però la parabola volse al suolo e gli album successivi vennero ignorati dalle platee. Non so se fu la mancanza di pezzi altrettanto forti, il genere o lo scimmiottare musicalmente i corregionali Litfiba degli inizi ma ammetto che mi è molto dispiaciuto.
Triste vedere come sia difficile trovare loro notizie attuali in rete e persino Luciferme.it, il sito accreditato, non risulta più attivo. Ho chiesto l'amicizia su Facebook a Luciferme Musica e mi sono stupito di vedere che tra i loro amici figura Filippo Malatesta. Il destino regala incroci curiosi e crudeli.

Non me ne vogliano i succitati artisti ma, pur avendoli nel cuore, c'è da ammettere che non hanno lasciato tracce profonde nel panorama musicale. L'accostamento è discutibile, lo so, ma uno solo è l'artista che avrebbe meritato di più: sto parlando di Luigi Tenco.
Dopo una decennale gavetta, agli inizi degli anni Sessanta Tenco stava accarezzando il successo musicale e cinematografico, nonostante le ripetute censure della Rai alle sue canzoni. Il pubblico però non trascurò pezzi memorabili come "Mi sono innamorato di te", "Lontano lontano" e "Angela" ma le ombre e il risentimento a lungo covato vennero fuori durante il Festival di Sanremo del 1967.
"Ciao amore ciao", la sua canzone in gara, non fu apprezzata dalle platee e fu eliminato. Lo sconforto lo avvolse e poco dopo l'eliminazione venne trovato morto nella sua camera d'albergo.

"Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perchè sono stanco della vita (tutt'altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda 'Io tu e le rose' in finale e ad una commissione che seleziona 'La rivoluzione'. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi."

Queste furono le sue ultime parole, un biglietto ritrovato vicino al corpo in cui Tenco vomitava la sua rabbia, in modo come sempre pacato. Non poteva sopportare che una grande, grandissima canzone come "Ciao amore ciao" venisse fatta fuori in nome di Orietta Berti e Gianni Pettenati.
Uno dei primi ad accorgersi di ciò che era successo fu il suo grande amico Lucio Dalla, un altro grande artista poco compreso all'inizio. Lui era riuscito a tenere duro, a combattere, Tenco non era stato altrettanto forte.
Non era servito l'amore di Dalida a salvarlo, non erano bastati i successi di altre sue canzoni a ridare il sole ad una personalità complicata, introversa.
Si è sparato un colpo in testa per cercare di cambiare le cose, per smuovere gli ingranaggi arrugginiti e le coscienze, ma non è servito a nulla. Siamo diventati il paese in cui i cantautori vengono ignorati e vanno a lavorare in fabbrica per mantenersi e i ragazzini di Amici vendono copie come noccioline. Siamo diventati il paese in cui grandi artisti vengono ricordati solo dopo la morte e Giusy Ferreri e Marco Mengoni cantano la sua "Ciao amore ciao".
Non è cambiato nulla, Luigi, proprio nulla, anzi. Il tuo gesto non è servito ma le tue canzoni quelle si, ce le ricordiamo tutti e non ci sono più commissioni che potranno eliminarle dalla storia della musica. Ciao Luigi, ciao, riposa in pace se puoi.


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